giovedì 29 giugno 2017

Io qui non ci dovevo venire



“Io qui non ci dovevo venire!”
Chiudo gli occhi risoluta, sperando che questo gesto sia sufficiente per far scomparire per sempre l’immagine che mi ha disturbato due secondi fa. Dopo un po' il brusio nella sala mi induce ad aprirne uno; così, giusto per dare una veloce occhiata in giro. Tanto si sa che sono eccentrica. Una stranezza in più da aggiungere agli aneddoti che mi riguardano cosa vuoi che sia? No, il desiderio non si è avverato. Il cretino è ancora lì, davanti a me, dietro il tavolo delle rappresentanze. Io lo sapevo che questo weekend sarebbe stato un fallimento. 
Lo sapevo e non sarei dovuta venire. Invece mi sono fidata e ho creduto alle parole della mia segretaria: «Il signor Guai non ci sarà.» Aveva assicurato. 
Invece c’è, e, se cognome è profetico, quello dell’uomo che mi sorride spavaldo e anche un po' strafottente, è una certezza assoluta. Andare via non sarebbe dignitoso e ho esaurito i minuti a disposizione per non far diventare la mia entrata una farsa. Crederanno che sul pavimento ci sia della colla istantanea che mi impedisce di fare un passo avanti. Provo a farlo, questo benedetto passo, ma le gambe sembrano cedere di colpo e il tacco s’impiglia nel bordo del tappeto. Se volevo far colpo ci sono riuscita in pieno, considerato che cado in ginocchio davanti a tutti e, soprattutto, davanti a lui: il cretino, che ride sotto i baffi. 
Adesso potrei anche andare via, tanto avranno di che parlare per mesi, se non per anni. Invece accolgo con sollievo l’aiuto di due hostess, arrossisco fino alla radice dei capelli e ignoro gli applausi di incoraggiamento. Tutti applaudono, tranne lui, che continua a guardarmi con gli occhi socchiusi, pensando, forse, al mio corpo sotto le sue mani. Il problema è che ci sto pensando anche io e, mentre prendo posto davanti al microfono, la mente si oscura e non ricordo più nulla di quello che dovevo dire. In questo momento mi odio. Non ricordo una parola e non inizio a parlare nemmeno quando i colpi di tosse diventano un tuono. Tossiscono tutti, qua dentro. 
Probabilmente hanno l’aria condizionata troppo alta. 
«Tutto bene?» la domanda cretina proviene, naturalmente, dal cretino. No, che non va tutto bene. Ci vuole un mago per capirlo? Sono in pieno attacco di panico e non mi era mai capitato prima. Allora è lui a prendere la parola e a salvarmi dalla gogna mediatica. Mica mi ero accorta delle telecamere puntatemi contro? Spero solo che non mandino in onda la mia caduta, né la mia entrata e, ancora meno il mio mutismo selettivo. Perché deve trattarsi di quello e non di panico. Il cretino parla e parla e parla ancora e le sue chiacchiere, ora, sbloccano il mio cervello. Finalmente torno a essere quella che ero prima di entrare in questa stanza e parlo, parlo e parlo ancora. La giornata finisce non so nemmeno come, e posso, finalmente, recarmi in hotel. 
Cosa ve lo dico a fare? 
È lo stesso dove alloggia anche lui. Vorrei morire, ma credo di averlo pensato fin troppe volte e non sono ancora morta. 
«Io e te dobbiamo parlare. Non puoi continuare a sfuggirmi», mi dice, impedendomi di passare. Mi fermo davanti alle sue gambe e lo guardo, cercando di fare l’indifferente. Il problema è che indifferente non lo sono affatto. Non lo sono mai stata e non lo sarò mai. Io e quest’uomo ci siamo lasciati e presi innumerevoli volte, nel corso degli ultimi dieci anni, e non riesco davvero a togliermelo dalla testa. 

“Io qui non ci dovevo venire”, mi ridico per l’ennesima volta, sentendo le farfalle danzare nello stomaco. Avranno fame anche loro, come me. In realtà ci abbiamo provato; a parlare, intendo, ma le parole sono state accompagnate anche da un paio di bicchieri di vino e io il vino non lo reggo. Mi sono svegliata solo la domenica pomeriggio, nel letto dell’albergo e con il cretino accanto. Ci ho fatto di nuovo l’amore, non ci sono dubbi. Ora di cretini ce ne sono due: io e lui, e, io, ho mandato all’aria anni di terapia in un weekend: un weekend tutto sbagliato.

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