Racconti


AURORA SI SPOSA



Oggi mi sposo.
Ho aperto gli occhi quando fuori erano appena spuntate le prime luci dell’alba e sono rimasta a letto guardando il nuovo giorno sorgere lentamente, senza fretta. Si preannuncia una giornata piena di sole e di gioia. È un giorno lieto, questo. In casa sono tutti diventati pazzi e frenetici. Strano a dirsi, ma la più calma sono io. Solo io non ho perso la testa. Mio padre si aggira da giorni fra la mia camera e la sala da pranzo. Sarà ingrassato di due chili nelle ultime ore. È abruzzese, lui, e ci tiene alle tradizioni della sua terra. Ha voluto che preparassimo il tavolo per gli ospiti già da una settimana. Ha detto che fare il ricevimento era da maleducati perché non avremmo potuto dare la giusta importanza a ogni invitato alle nozze e così, da sette, lunghissimi giorni, non faccio altro che rispondere alle stesse domande e a offrire pasticcini fatti in casa dalle mie zie. Loro, poi, sono diventate isteriche! hanno approfittato dell’occasione per dare sfoggio delle loro abilità culinarie. 
Ogni giorno una di loro è arrivata con vassoi pieni di prelibatezze, cercando di surclassare quelli delle altre. Mio padre ha gradito sempre tutto e non ha fatto altro che decantare le bontà della sua terra e la bravura delle sue sorelle. Mia madre per poco non ha dato i numeri. Lei è di Bolzano e ha la stessa temperatura delle sue montagne. Fredda e compassata come un’istitutrice tedesca, o, forse, è meglio dire austriaca. Più attinente alla provenienza. Per la prima volta l’ho vista perdere quello sguardo sempre impassibile e gelido. Si aggira in casa come se, all’improvviso, avesse capito che è capitata in una gabbia di matti. Fra i matti ha messo anche me, naturalmente. Soprattutto dopo quello che ho fatto ieri sera. Anzi, quello che abbiamo fatto io e mia sorella. Non capisce che tutte le spose partecipano a feste organizzate dalle amiche per dire addio al nubilato. Festicciola semplice, con annesso squallido spogliarello maschile. Dopo due drink, però, lo spogliarello non mi è sembrato tanto squallido. Oserei dire che ha preso una svolta molto interessante. Soprattutto quando ho iniziato a confrontare i fisici statuari dei ballerini con quello di Marco, il mio futuro sposo. Marco mi ha conquistato prendendomi per la testa, nel senso che mi ha conquistato con la sua intelligenza. È molto intelligente, davvero. Forse pure troppo, a volte. È pure un po’ stressante, a dire la verità. Io sono un sangue misto. Un po’ abruzzese e un po’ austro ungarica. Forse molto più abruzzese, in verità. Tutti mi dicono che somiglio tantissimo a mio padre. Mia madre me lo dice quando mi deve insultare. Anche Marco me lo dice con un tono di rimprovero. 
A me mio padre piace, e mi piace anche essere abruzzese.  Soprattutto mi piace esserlo quando mi dicono che sono gentile, ospitale e allegra. Stamattina, però, mi sento molto come un orso abruzzese. Io e Sara, mia sorella, siamo rientrate alle due del mattino e ora ho un fastidioso cerchio alla testa che mi opprime gli occhi, e ho anche un terribile senso di nausea. Naturalmente ci siamo ubriacate. Io, perlomeno, mi sono ubriacata. Oggi sarò un disastro, con gli occhi gonfi e lo sguardo inebetito. Tutti penseranno che la mia strana espressione sarà causata dall’emozione, ma io e mia sorella sapremo che la mia espressione rapita è il risultato di non so più quanti bicchieri di cuba libre e chi più ne ha più ne metta. Ho bevuto come uno scaricatore di porto, sempre che loro riescano a tracannare quelle cose. Non so cosa mi sia preso, ieri sera, ma mi sono lasciata andare come non mi era mai accaduto prima e ho assecondato tutti gli stupidi scherzi che le mie amiche avevano organizzato per festeggiare il mio addio al nubilato. Eravamo in dieci, compresa la mia testimone di nozze, che è pure incinta di sei mesi.  Sembra una mongolfiera. Avrei voluto dirglielo ma mi sono trattenuta per miracolo proprio all’ultimo momento. Era così felice di portare in giro quella pancia ingombrante! Non sembrava nemmeno più la ragazza che conoscevo e con la quale mi divertivo fino a un anno fa. Ormai parla solo della sua gravidanza e dei problemi di circolazione che ha alle gambe e delle nausee che il bambino le provoca. Ah, sì, è un bambino e si chiamerà Casimiro come suo suocero, perché lui ci tiene ad avere un nipote che si chiamerà così. Anche per lei è diventata un’ossessione l’idea di poter chiamare il bambino con quel nome così improbabile e antico. Quel poverino mi fa già pena. Sarà preso in giro costantemente dai suoi amici per il terribile nome che porterà. Il primo drink l’ho bevuto in onore di Casimiro che ancora non c’è.
Laura, la mia amica, sembra improvvisamente diventata scema, e io mi sono addirittura depressa nel constatare che con lei non ho più tanti argomenti di conversazione. Parlare di gravidanza e di settimane di gestazione, di corsi pre-parto e di monitoraggi mi ha davvero annoiato e per darmi un tono mi sono buttata sulla sangria come un affamato si butterebbe su una teglia di timballo. Ho rialzato il viso solo quando mi sono resa conto che lei aveva trovato un’altra vittima da tormentare con i suoi racconti. Potrei anche tornare sui miei passi e scegliere un’altra testimone per le mie nozze, ma, ormai, non farei più in tempo e le dovrei restituire il regalo costosissimo che ha deciso di farmi. Mi ha regalato un televisore trentadue pollici con sistema surround. Quando me lo son visto recapitare a casa mi sono chiesta chi lo avesse mandato. Non avrei mai pensato a lei, ma poi Annalisa, un’altra delle mie amiche, mi ha confessato che Laura lo ha acquistato con un finanziamento a trentasei rate e che lo inizierà a pagare solo fra tre mesi.  Non posso darle un dolore così grande; davvero non posso. Ieri sera Annalisa mi si è seduta accanto proprio mentre mandavo giù l’ultimo sorso di sangria e mi ha abbracciato forte forte, come si fa di solito ai funerali, quando devi rincuorare qualcuno che soffre tantissimo.
«Davvero, sei una che ha tanto coraggio» ha sussurrato, mentre i suoi occhi deviavano improvvisamente, dirigendosi verso il centro della pista da ballo. Non ho capito a cosa si riferisse perché mi ha lasciata sola, precipitandosi a bordo pista. Stava per iniziare lo spettacolo che tutte loro avevano organizzato  tassandosi  pesantemente e non voleva  perderlo per nulla al mondo. 
Mia sorella mi ha detto che sono mesi che prendono accordi con quel gruppo di spogliarellisti e che hanno messo da parte un bel po’ di soldi per poterli pagare, ma che, alla fine, ce l’hanno fatta a ingaggiarli. 
Per darmi un tono mi sono alzata  e avvicinata alla pista. Meno male che non si vedeva a un palmo dal naso, così nessuno ha potuto vedere il mio viso rosso. Qualcuno mi ha messo in mano un bicchiere di mojito  e poi un altro e un altro ancora, e ora eccomi qui, davanti allo specchio di un bagno che riflette l’immagine di una donna distrutta che oggi si sposa. Le spose dovrebbero essere tutte raggianti il giorno del proprio matrimonio. Non dovrebbero essere dei mostri!
Qualcuno bussa alla porta del bagno ed entra. Guardo l’intrusa attraverso le palpebre e noto che mi tende delle pasticche bianche e un  bicchiere d’acqua. «Prendi due aspirine.»
Riconosco la voce di mia sorella e accetto ciò che mi tende con tanto amore. Butto giù il bicchiere d’acqua e mi siedo sul sedile del water in attesa che l’aspirina faccia il suo effetto magico. Lei si siede per terra e aspettiamo insieme. Di là, in cucina, si sente  profumo di caffè. La casa si sta svegliando. Fra un po’ arriveranno l’estetista e la coiffeuse. Non la dobbiamo chiamare parrucchiera perché mia madre  non sopporta queste parole italiane così volgari e plebee. Coiffeuse suona meglio di parrucchiera, ma la sostanza non cambia. Queste sono parole di mio padre e mio padre ha sempre ragione. Mio padre si chiama Angelo. Almeno lui ha un bel nome. Il mio futuro  suocero si chiama Mario. Ha un nome banale, banalissimo. Non chiamerò mai mio figlio Mario. In realtà io ai figli non ci ho mai pensato. Io e il mio futuro  sposo non ne abbiamo mai parlato. Non so nemmeno se mi piacciono, i bambini. Non so nemmeno se mi piacerà cucinare e fare la moglie. Ho avuto poco tempo per pensarci. Di solito analizzo tutti i pro e i contro di una situazione. Sono razionale e pragmatica in tutto. Non ho, però, analizzato il mio matrimonio. Non ne ho avuto il tempo. Faccio ancora in tempo a chiamare Marco e a chiederglielo. La testa fa meno male di prima e i movimenti sono già più fluidi. Chiedo a mia sorella di portarmi il cellulare in bagno. 
Lo chiamo. Lui mi dice che è naturale avere figli  se due si sposano e che sua madre m’insegnerà tutto quello che c’è da sapere sulla cucina e sui suoi gusti. La sua risposta non mi piace un gran che. Forse sono nervosa. Tutte le spose lo sono, il giorno del proprio matrimonio. Soprattutto se la sera prima si sono ubriacate. Dopo un po’ mia madre bussa alla porta ed entra, senza aspettare risposta. È lei la padrona di questa casa e si capisce benissimo. «Sei ancora ubriaca!» mi accusa, guardandomi in modo inquietante.
«Solo un po’», la rassicuro cercando di mettermi in piedi e di non barcollare.
«Speriamo che non ti venga una delle tue emicranie», mi  conforta mia sorella, aiutandomi a raggiungere di nuovo la stanza da letto. Sara  ha sempre una buona parola per tutti. Soprattutto per me. Si diverte da matti nel vedermi in difficoltà. È sempre stato così. Adesso, però, ho bisogno di una lunga doccia fredda. Non ho alcuna intenzione di mostrare alla futura suocera il mio lato peggiore proprio il giorno del matrimonio. Avrà il tempo necessario per conoscermi. Non devo affrettare i tempi. Alla fine, come al solito, la doccia fredda calma i bollenti spiriti e riesce a ridarmi un  aspetto dignitoso. Mia sorella entra in bagno per avvisarmi che sono arrivate  l’estetista e la coiffeuse. Mia madre ha tirato fuori l’abito da sposa e l’ha appeso all’anta più alta dell’armadio. Quando entro in camera resto, per un attimo, interdetta a guardarlo. Non me lo ricordavo affatto così. Stringo gli occhi e mi avvicino, sempre più scettica. Ma sarà il mio?  Mia madre intercetta il mio sguardo: «Che hai?» mi chiede, precipitandosi verso di me.
«Quest’abito è orrendo!» esclamo, sedendomi sul letto. Le tre donne che sono in camera si guardano e si scambiano sorrisi di circostanza. Lo so quello che stanno pensando. Le spose sono tutte nervose, non sanno quello che dicono. Io, invece, so benissimo quello che dico. Quella mostruosità che pende dall’armadio l’ho scelta solo perché, dopo ore e ore di prove estenuanti, non ce la facevo più a sopportare mia madre e mia suocera. Entrambe me lo volevano regalare e, alla fine,  ho optato per l’ultimo  provato. È orrendo e io sarò ridicola. Io non porto mai le gonne e ora la gente mi vedrà con  addosso questo tripudio di pizzi e trine e fiori d’organza. Sarò la sposa più ridicola del mondo. E anche la più sbronza. Sento un formicolio sotto i piedi  e inizio a preoccuparmi un bel po’. È lo strano formicolio che mi prendeva quando dovevo dare un esame all’Università e non avevo studiato tantissimo. Di solito scappavo. 
Di solito. Ma oggi non posso. Oggi mi sposo.
Dopo  due ore sono finalmente pronta fra gli ohhh! ahhh! ehhh! delle due professioniste e di mia madre. Mia sorella entra proprio mentre la virago si sta asciugando una lacrima e scoppia a ridere. 
«Sei davvero ridicola!» esclama e poi scappa, ben sapendo che l’austro ungarica potrebbe anche ucciderla con uno sguardo. Il formicolio diventa sempre più fastidioso. Se ne accorge anche la dura donna del nord. «Vado a chiamare tuo padre» dice, e si allontana con le altre due al seguito.
Mi giro verso lo specchio e mi guardo. In realtà mi studio, mi osservo. 
Non mi piaccio. 
La casa si è riempita di gente festosa. La sento mangiare e chiacchierare di là, in salotto. 
Sono tutti contenti. 
Anch’io sono contenta. 
Anche Marco e la famiglia di Marco sono contenti. 
Siamo tutti contenti. 
Oggi si celebrano le nostre meravigliose nozze. Anche la mia famiglia è contenta. Anche mio padre lo è. Non lo ha mai detto, però lo deve essere per forza. La sua primogenita si sposa. Ogni padre sarebbe contento. Non mi accorgo che è entrato fino a quando non lo vedo riflesso dietro di me. Gli sorrido con calore. Con lui è facile essere di buonumore. Ha in mano un vassoio di sfogliatelle con la marmellata d’uva. Quelle che sua madre faceva nel periodo natalizio.
«Le ha portate zia Pia. Sa quanto ti piacciono.»
Ci sediamo insieme sul mio letto e ne prendo una, addentandola con gusto. Il rossetto andrà via e rischio anche di sporcarmi, ma non m’interessa. Le sfogliatelle di zia Pia non possono assolutamente essere ignorate.
«Sei bella» borbotta, quasi timido.
Con la bocca piena io scuoto la testa e sorrido di nuovo «Non dire bugie, lo so che non è vero.»
«Se vuoi ripensarci fai ancora in tempo», mi dice, sorprendendomi. Riesce sempre a leggermi nel pensiero. Riesce sempre a dare  voce alle mie parole.
«Ti prudono i piedi, vero?» mi chiede, alzando l’orlo di questa ridicola gonna con crinolina. Annuisco, continuando a masticare la sfogliatella. Sa di sole, di casa, di amore. Mi passa una mano fra i capelli e si alza, riprendendo il vassoio con i dolci. «I tuoi piedi non hanno mai sbagliato», sussurra, lasciando la mia stanza.
Dopo un po’ mi alzo e mi specchio di nuovo, poi, finalmente, raggiungo gli altri in salotto. Sono tutti pronti a brindare. Guardo mio padre. Lui mi fa l’occhiolino. Alzo il bicchiere di spumante e  aspetto gli auguri degli invitati.
«Oggi  è un giorno importante, Aurora si sposa!»  urlano. 
Bevo con calma il contenuto del mio calice e lo poso sul tavolino vicino alla finestra, poi li guardo tutti, sorridendo radiosa. I piedi hanno smesso di prudere. Sicuramente era un falso allarme. 
Ultimamente mi impressiono troppo facilmente. I parenti e gli amici si avvicinano e mi baciano, dicendomi che sono irriconoscibile. Non so se essere felice o meno dei tanti complimenti che ricevo. Essere irriconoscibile vorrà dire essere più bella o più brutta? Se opto per la prima ipotesi mi sento profondamente offesa perché, allora, nei miei giorni normali sono brutta, ma se opto per la seconda lo sono ancora di più, perché, allora, avevo ragione io ma soprattutto ha ragione mia sorella quando dice che sono ridicola con questo vestito.
Incrocio lo sguardo di mio padre e lui mi fa un cenno buffo con la bocca. Fa sempre così quando vuole farmi ridere. Io gli sorrido e ricambio il gesto buffo, ma lui non ricambia il sorriso. Ci pensa mia madre a sbloccare la situazione. Dirige tutti come un bravo capitano e ci dirotta verso l’esterno, dove aspettano le auto tirate a lucido e addobbate con grandi fiocchi bianchi. Arriviamo davanti alla chiesa con soli cinque minuti di ritardo. Le spose, di solito, si fanno aspettare un bel po’. Io no. Io sono quasi puntuale. Penseranno tutti che sono impaziente di  farmi mettere l’anello al dito e intrappolare per sempre uno degli scapoli più ambiti della città. La folla che si accalca davanti all’auto  per pochi istanti mi impedisce di scendere e mi permette di osservare Marco. Sembra nervoso. Lo guardo bene. Osservo il suo fisico pesante, i suoi capelli corti, i suoi occhiali da vista. Si vede subito che è un intellettuale. Spesso gli hanno chiesto cosa l’avesse colpito di me. Lui ha sempre risposto “il suo sorriso”. Non ha mai detto la sua voce, i suoi pensieri, il suo modo di essere.  Il suo sorriso. Lo faccio ridere. Sono il suo clown. Sua madre gli sistema il papillon grigio perla.  Solo lui poteva decidere di mettersi il papillon alle dieci di mattina. Mio padre apre la portiera dell’auto e mi tende una mano mentre la mia testimone di nozze mi si affianca con un sorriso radioso e mi dà il bouquet di rose bianche, circondate di nebbiolina freschissima e avvolte dal  candido tulle. Scendo con non poche difficoltà mentre una miriade di damigelle mi si sparpaglia intorno, sistemandomi il velo, lo strascico, la gonna. Io avevo detto che non volevo le damigelle. La mia imminente futura suocera mi bacia sonoramente sulle gote arrossate dalla rabbia e mi passa una mano sulla mano che stringe convulsamente il bouquet. 
«Hai visto la sorpresa? un matrimonio non può definirsi tale se mancano le damigelle della sposa.» 
Marco, evidentemente, legge nel mio sguardo una muta dichiarazione di guerra e mi si avvicina solerte, dicendomi che sono bellissima. 
«Forse solo un po’ troppo volgare il trucco» aggiunge, credendo di essere spiritoso. I piedi tornano a farsi sentire, stavolta in maniera esagerata. Dal fondo della chiesa parte, improvvisa, la marcia nuziale. Il parroco ha fretta di celebrare il matrimonio. Fra meno di due ore ci sarà un funerale. Me lo ha detto ieri sera, quando mi ha telefonato pregandomi di essere puntuale. La testa mi fa di nuovo male. Sento i rumori intorno a me, vedo le persone che si agitano e mi sembra di  essere in una dimensione parallela a quella che  mi circonda. Marco mi prende sottobraccio e ci avviamo verso l’altare. Occupiamo tutti il nostro posto e assistiamo alla celebrazione della funzione che precede il momento dello scambio delle promesse. Marco mi guarda e mi sorride fiducioso. Io ricambio distrattamente il sorriso. Non riesco a concentrarmi. La mente vaga e si distrae continuamente. Mi succedeva anche quando ero piccola. Ero in un posto fisicamente ma la mia anima era altrove. Anche adesso sono altrove. Dove non so, ma so, di sicuro, che non riesco a essere dove dovrei. Sento Marco agitarsi più del normale e lo vedo  fare un gesto a un bambino vestito di azzurro. Porta un paio di pantaloni di raso e una camicia di cotone. I calzini sono bianchi, così come le scarpette di pelle. Sembra uno di quei bambolotti nella scatole  di cartone esposte nelle vetrine dei negozi, nel periodo natalizio. Il bambino avanza barcollando e poco felice di tutti gli sguardi di trepida attesa fissi sulle sue piccole manine che trasportano un ridicolo cuscinetto di seta. Sul cuscino ci sono le fedi nuziali. Avevo detto che non volevo paggetti e non volevo cuscini. Mi giro verso quella che, ormai, è mia suocera e lei assentisce, tutta contenta. È stata lei, ovvio. Il piccolino riesce, per miracolo, a posare il cuscinetto sul banco coperto da un drappo rosso porpora e fa un veloce giro su se stesso, allontanandosi a gran passi. Adesso cammina davvero spedito, sicuro di sé. Marco prende quello che è il mio anello e pronuncia, commosso e confuso, la formula che don Silvio ci ha  consigliato di imparare a memoria.
«Io Marco, prendo te, Aurora, come mia sposa, e prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.» Poi mi guarda, contento di aver ricordato tutte le parole. 
Ora tocca a me. Tossisco. Cerco di schiarirmi la voce e poi pronuncio le parole che tutti aspettano. «Io, Aurora, prendo te, Marco, come mio sposo, e prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.» 
Don Silvio sorride, compiaciuto. «Il Signore onnipotente e misericordioso confermi il consenso che avete manifestato davanti alla Chiesa e si degni di ricolmarvi della sua benedizione. L'uomo non osi separare ciò che Dio unisce.»
Dopo l’Amen collettivo, Don Silvio continua:«O Signore, santifica l'amore di questi sposi; l'anello che porteranno come simbolo di fedeltà li richiami continuamente al vicendevole amore. Per Cristo nostro Signore.» 
Di nuovo tutti rispondono con un sonoro Amen. Marco prende in mano la mia fede. Un raggio di sole la colpisce e io riesco, per un attimo, a vedere riflessa una porzione del mio occhio destro. Ho uno strano sguardo.
«Aurora, ricevi questo anello, segno del mio amore e della mia fedeltà. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.»
Mi infila la fede ma sbaglia dito e ci mette un po’ per rimediare. Vedo che si è innervosito. Adesso tocca a me. Devo infilargli la fede al dito giusto. Marco è superstizioso e sarebbe una tragedia se io sbagliassi. Prendo l’anello in mano e lo alzo verso don Silvio. Non posso fare a meno di grattare il piede sulla gamba della sedia. Se ne accorgono tutti. Sento un respiro trattenuto a stento. Giro appena appena lo sguardo, distraendomi di nuovo. Mia suocera mi esorta a parlare. Mia madre mi guarda gelida, mia sorella sta ridendo. Mio padre mi guarda i piedi e scuote la testa. Torno a guardare don Silvio e poi, finalmente, guardo Marco. Adesso posso  parlare. Adesso sono sicura. Non sono più confusa. Ho capito. Adesso ho capito davvero che la mia decisione è quella giusta e che,  l’indecisione ha abbandonato la mia mente offuscata dai fumi del troppo alcool tracannato ieri sera. 
«Io non posso sposarti», affermo, aspettandomi un ohhhhh! Da parte dei presenti.
L’ohhhhh! Non arriva. Tutti tacciono e aspettano. Sento solo il sospiro rassegnato di don Silvio e il colpo di tosse di mio padre. Mi ero confessata, una settimana fa. Mi ero confessata dopo venti anni e glielo avevo detto, a don Silvio, che non ero più tanto sicura di  volerlo sposare. Lui mi aveva convinta a non  fare un dispetto a Marco, ma mica me lo posso fare da sola il dispetto! Marco mi guarda inorridito mentre mi sfilo la fede dal dito. «Non posso sposarti. Io non posso, davvero, non posso. Mi prudono i piedi.»
«Tu sei impazzita!» riesce solo a dire.
Io gli volgo le spalle, fra lo stupore di tutti. Nessuno osa fare un gesto, nessuno osa avvicinarsi. Ho lasciato senza parole anche mia madre. Guardo mia sorella e mio padre. Guardo, soprattutto, lui. Dopo un brevissimo istante  mi si avvicina. Non sembra particolarmente arrabbiato. Mi tende una mano e mi sorride, mentre ci allontaniamo lungo la navata della chiesa. 
«Andiamo a casa» mi dice, facendomi salire sull’auto. Stavolta mi siedo accanto all’autista. Mi libero del velo e del bouquet, buttandoli sul sedile posteriore.
«Meno male che abbiamo ancora le sfogliatelle di zia Pia!» esclama, mentre mette in moto.


******



“Io qui non ci dovevo venire!”
Chiudo gli occhi risoluta, sperando che questo gesto sia sufficiente per far scomparire per sempre l’immagine che mi ha disturbato due secondi fa. Dopo un po' il brusio nella sala mi induce ad aprirne uno; così, giusto per dare una veloce occhiata in giro. Tanto si sa che sono eccentrica. Una stranezza in più da aggiungere agli aneddoti che mi riguardano cosa vuoi che sia? No, il desiderio non si è avverato. Il cretino è ancora lì, davanti a me, dietro il tavolo delle rappresentanze. Io lo sapevo che questo weekend sarebbe stato un fallimento. 
Lo sapevo e non sarei dovuta venire. Invece mi sono fidata e ho creduto alle parole della mia segretaria: «Il signor Guai non ci sarà.» Aveva assicurato. 
Invece c’è, e, se cognome è profetico, quello dell’uomo che mi sorride spavaldo e anche un po' strafottente, è una certezza assoluta. Andare via non sarebbe dignitoso e ho esaurito i minuti a disposizione per non far diventare la mia entrata una farsa. Crederanno che sul pavimento ci sia della colla istantanea che mi impedisce di fare un passo avanti. Provo a farlo, questo benedetto passo, ma le gambe sembrano cedere di colpo e il tacco s’impiglia nel bordo del tappeto. Se volevo far colpo ci sono riuscita in pieno, considerato che cado in ginocchio davanti a tutti e, soprattutto, davanti a lui: il cretino, che ride sotto i baffi. 
Adesso potrei anche andare via, tanto avranno di che parlare per mesi, se non per anni. Invece accolgo con sollievo l’aiuto di due hostess, arrossisco fino alla radice dei capelli e ignoro gli applausi di incoraggiamento. Tutti applaudono, tranne lui, che continua a guardarmi con gli occhi socchiusi, pensando, forse, al mio corpo sotto le sue mani. Il problema è che ci sto pensando anche io e, mentre prendo posto davanti al microfono, la mente si oscura e non ricordo più nulla di quello che dovevo dire. In questo momento mi odio. Non ricordo una parola e non inizio a parlare nemmeno quando i colpi di tosse diventano un tuono. Tossiscono tutti, qua dentro. 
Probabilmente hanno l’aria condizionata troppo alta. 
«Tutto bene?» la domanda cretina proviene, naturalmente, dal cretino. No, che non va tutto bene. Ci vuole un mago per capirlo? Sono in pieno attacco di panico e non mi era mai capitato prima. Allora è lui a prendere la parola e a salvarmi dalla gogna mediatica. Mica mi ero accorta delle telecamere puntatemi contro? Spero solo che non mandino in onda la mia caduta, né la mia entrata e, ancora meno il mio mutismo selettivo. Perché deve trattarsi di quello e non di panico. Il cretino parla e parla e parla ancora e le sue chiacchiere, ora, sbloccano il mio cervello. Finalmente torno a essere quella che ero prima di entrare in questa stanza e parlo, parlo e parlo ancora. La giornata finisce non so nemmeno come, e posso, finalmente, recarmi in hotel. 
Cosa ve lo dico a fare? 
È lo stesso dove alloggia anche lui. Vorrei morire, ma credo di averlo pensato fin troppe volte e non sono ancora morta. 
«Io e te dobbiamo parlare. Non puoi continuare a sfuggirmi», mi dice, impedendomi di passare. Mi fermo davanti alle sue gambe e lo guardo, cercando di fare l’indifferente. Il problema è che indifferente non lo sono affatto. Non lo sono mai stata e non lo sarò mai. Io e quest’uomo ci siamo lasciati e presi innumerevoli volte, nel corso degli ultimi dieci anni, e non riesco davvero a togliermelo dalla testa. 

“Io qui non ci dovevo venire”, mi ridico per l’ennesima volta, sentendo le farfalle danzare nello stomaco. Avranno fame anche loro, come me. In realtà ci abbiamo provato; a parlare, intendo, ma le parole sono state accompagnate anche da un paio di bicchieri di vino e io il vino non lo reggo. Mi sono svegliata solo la domenica pomeriggio, nel letto dell’albergo e con il cretino accanto. Ci ho fatto di nuovo l’amore, non ci sono dubbi. Ora di cretini ce ne sono due: io e lui, e, io, ho mandato all’aria anni di terapia in un weekend: un weekend tutto sbagliato.

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